Pillola di Fotografia #51: The red ceiling (1973)

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Pillola di Fotografia #51: The red ceiling (1973)

Ciao a tutti e bentornati a questa nuova Pillola di Fotografia.

La fotografia di cui vi parlerò in questa Pillola è apparentemente banale nella composizione e nella scelta del soggetto. Sì insomma si tratta della fotografia di una lampadina appesa al muro in una stanza con le pareti rosse. Si vedono i fili elettrici che consentono a questa lampadina di accendersi e illuminare la stanza, le imperfezioni della parete e dei quadri nell’angolo in basso a destra.

Siamo sinceri, se questa foto la vedessimo appesa a una parete di un museo o di una galleria le dedicheremmo, proprio per voler essere gentili, al massimo mezzo minuto. Se fosse appesa al muro di una casa privata decisamente meno.

E, badate bene, sono il primo ad ammettere che mi comporterei anche io in maniera identica. Prima di conoscere la storia dietro questa foto.

Avendo avuto modo di studiare il fotografo che ha realizzato questa fotografia, l’americano William Eggleston questa fotografia ha assunto tutto un altro significato. Che vi illustrerò di seguito.

Ebbene dunque, perché una foto così apparentemente banale e insignificante è così importante? La risposta, sono certo, vi lascerà basiti. Ebbene il motivo è perché questa fotografia è…a colori. Sì avete letto bene, l’importanza di questa fotografia è data dal fatto che sia stata scattata in colori.

Embè, vi starete chiedendo. Che c’è di tanto strano in una fotografia a colori? Oggi decisamente niente. Siamo abituati a vedere immagini a colori ogni giorno, sia in televisione, che nei cartelli pubblicitari, sia le foto che noi stesso realizziamo col nostro smartphone. Scattiamo quasi esclusivamente a colori perché i sensori delle nostre fotocamere digitali registrano le immagini a colori e solo in seguito, con appositi programmi di elaborazione digitali le convertiamo in bianco e nero o gli applichiamo filtri che ne alterano i colori. Per noi oggi il colore è la normalità, ma – ed è qua che sta il nocciolo della questione – questa foto è stata scattata nel 1973.

Non sono passati neanche cinquant’anni da quando questa foto è stata realizzata eppure, a livello tecnologico e fotografico, ne è passata di acqua sotto i ponti.

Nel 1973 il digitale non esisteva ancora. La cara vecchia pellicola dominava incontrastata nel mondo della fotografia e, ovviamente, del cinema. E in quegli anni, intorno alla fotografia c’era in corso un dibattito accesissimo proprio sul colore e il suo uso. Insomma c’era chi considerava il colore adatto esclusivamente alle immagini dedicate alla pubblicità e che mai avrebbe potuto/dovuto essere utilizzato nella fotografia autoriale, ovvero i reportage e le foto di fine art dedicate alle mostre fotografiche, che sempre più spesso venivano organizzate da grandi musei o gallerie laddove prima trovava spazio solo l’arte classica, ovvero la pittura e la scultura. Henri Cartier-Bresson, i cui giudizi sulla fotografia sono spesso tranchant, netti e definitivi, definiva la fotografia a colori “bullshit” ovvero una cagata pazzesca. Certo, quando HCB proferì quest’affermazione le pellicole a colori erano ancora poco stabili e soprattutto lo sviluppo in camera oscura non era ancora stato perfezionato come poi accadde decenni dopo (erano gli anni ‘50 del novecento quando lo affermò) e che quindi i colori non erano abbastanza fedeli e “credibili” per essere usati per, appunto, la fotografia autoriale.

Ma Eggleston, e non solo lui, lavoravano quasi esclusivamente a colori con toni, come abbiamo visto, decisamente saturi.

Eggleston si dedicava a raccontare la quotidianità, spesso nella sua banalità.

Quando Eggleston arrivò a New York dalla natìa Memphis, fece subito amicizia con fotografi che da lì a poco sarebbero diventate delle icone, dei veri e propri Maestri e modelli da seguire, tra cui spiccano i nomi di Garry Winogrand, Lee Friedlander, Diane Arbus. E furono proprio loro che lo convinsero a mostrare il proprio lavoro addirittura a John Szarkowski, allora direttore della fotografia del MoMA di New York.

Szarkowski era uno che non aveva problemi ad assumersi dei rischi per quanto concerne la scelta degli artisti da esporre. Ed Eggleston era decisamente un rischio, sebbene già in passato avesse avuto la possibilità di esporre il suo lavoro in una mostra curata da Stephen Shore.

E come Shore, Szarkowski vedeva nella fotografia a colori un brillante futuro. Erano decisamente lungimiranti.

Fu così che il 25 maggio 1976, Eggleston ebbe la sua mostra al MoMA. La mostra e il relativo catalogo furono una pietra miliare per la fotografia a colori. E, come per incanto, anche la diatriba sull’uso del colore sparì.

Il lavoro a colori di Eggleston fu di ispirazione per molti fotografi suoi contemporanei e successivi tanto che ne giovò il lavoro di un altro fotografo che usava solitamente i colori per la sua ricerca fotografica personale e mi riferisco ovviamente a Saul Leiter. Altri fotografi che sino a quel momento avevano lavorato esclusivamente in bianco e nero si convertirono al colore, come nel caso di Alex Webb.

E fu grazie a Eggleston se Martin Parr ha quel suo stile così immediatamente riconoscibile nell’uso del colore (aiutato dall’ausilio del flash).

Avete visto, dunque, quanto può essere interessante la storia dietro una foto che la maggior parte di noi reputa banale? Chissà, nel mondo della storia dell’arte quante opere “banali” hanno avuto poi un grosso impatto sull’arte stessa.

Nell’accomiatarvi vi invito caldamente ad approfondire il lavoro del fotografo William Eggleston. Vi basterà una semplice ricerca tramite motore di ricerca per avere decine di link da visitare.

Un’ultima cosa prima di salutarvi. Cosa ne pensate del nome del blog, “Il Fotoignorante”? E’ un argomento su cui decisamente tornerò.

Per ora è veramente tutto.

Un saluto e alla prossima Pillola.

Ciao!

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