Buongiorno a tutti e bentornati alla Pillola di Fotografia. La numero 49. Una Pillola decisamente meno allegra della precedente (che potete leggere a questo link).
Il titolo di questa foto, come avrete visto è: L’avvoltoio e la bambina (the vulture e the little girl) e fu scattata nel 1993 dal fotografo sudafricano Kevin Carter.
Una fotografia che di lì a pochi mesi gli valse il prestigioso Premio Pulitzer. Ma che gli portò anche un elevato numero di critiche. Ma procediamo con ordine.
Una delle caratteristiche che deve possedere un buon fotogiornalista, soprattutto quando opera in zone di estrema povertà, estrema durezza sociale e di conflitti è quella del distacco emozionale ovvero deve riuscire a mantenere il pieno controllo delle proprie emozioni quando, appunto, si trova a lavorare in zone “difficili” per poter portare a termine il proprio lavoro, soprattutto quando questo è stato commissionato.
Il buon fotogiornalista deve essere distaccato esattamente come accade ai medici o agli infermieri che ogni giorno vedono morire i propri pazienti e che devono comunicare la tragica notizia ai rispettivi cari.
Ora, è evidente che avere emozioni è parte fondamentale dell’essere umano e che ogni emozione ne forma la personalità, ma se si decide di fare un determinato lavoro si deve essere in grado di gestire queste emozioni affinché non ti distruggano psicologicamente e, nei casi più gravi, anche fisicamente portandoti alle estreme conseguenze.
Molti fotogiornalisti di guerra hanno dovuto cambiare mestiere o quantomeno ambito giornalistico perché impossibilitati a separare queste emozioni. Un esempio famoso è quello del fotoreporter inglese Donald Mccullin che era famoso proprio per i suoi reportage di guerra (tra cui il Vietnam).
Ma a Kevin Carter andò decisamente peggio.
Questa fotografia venne pubblicata dal New York Times il 26 marzo del 1993 e suscitò subito reazioni forti da parte del pubblico soprattutto all’indirizzo del suo autore.
Una delle critiche più frequenti che si sente rivolgere un fotogiornalista che opera in zone “difficili” riguarda la mancanza di empatia ovvero di pensare prima al proprio lavoro piuttosto che dare una mano di aiuto alle persone in evidente difficoltà, cosa che evidentemente è vera in questa situazione ovvero lo stato di estrema difficoltà in cui si trovava la bambina ritratta.
Ma il tuo compito non è quello di dare una mano, ma di documentare. E’ questo lo scopo principale di un fotogiornalista: documentare la scena e poi, eventualmente, dare una mano d’aiuto. Non è ovviamente una questione di mancanza di empatia o di umanità, ma una chiara distinzione di ruoli.
La cosa che fa più riflettere è che chi spesso lancia queste critiche lo fa comodamente seduto a casa sua in una zona agiata del mondo che non vive queste situazioni ma le apprende appunto da chi si trova sul posto per testimoniarle.
Ma queste accuse possono fare male a chi le riceve e se si somma il peso emozionale che genera quest’accusa al peso emozionale di trovarsi in quelle situazioni il risultato può essere disastroso.
Ed è esattamente ciò che accadde a Kevin Carter che, non riuscendo a gestire correttamente il carico emozionale soccombette e per questo si tolse la vita nel 1994.
Certo, qualcuno potrebbe obbiettare che nessuno lo obbligava a fare quel lavoro (anche qua, demagogia pura) ma Carter scelse questo lavoro proprio perché sentiva l’obbligo morale di far conoscere a quante più persone possibili, ciò che accadeva in quegli anni in Africa. Erano gli anni ‘90 del XX secolo, anni di rivolte, guerre sanguinose, carestie e via discorrendo.
E decise di farlo seguendo la lezione di un grande Maestro di Fotogiornalismo quel Robert Capa il cui motto era “se la foto non è riuscita bene, probabilmente non eri abbastanza vicino” (e sappiamo bene come morì Capa).
Fu proprio per questa sua abnegazione che Carter fu inviato In Sudan per testimoniare l’estrema situazione di disagio, distruzione e fame che viveva quel Paese.
E ne fu estremamente scosso.
Ma torniamo alla nostra foto.
Il New York Times, come detto, ricevette moltissime telefonate, non solo per lanciare critiche, ma c’era anche chi voleva avere notizie di quella bambina.
Il giornale uscì con un inusuale editoriale che informava i lettori che, in base alle informazioni in loro possesso, la bimba era riuscita a raccogliere la maggior parte del cibo che le era caduto durante il viaggio e a riprendere il suo percorso. Non ci è dato sapere se raggiunse la sua meta che, probabilmente era un centro di approvvigionamento di cibo.
Nota a margine per quanti accusarono Carter di non muovere un dito in favore di quella bambina. Lo stesso Carter disse che per tutta la durata della sua permanenza in Sudan venne costantemente scortato da alcuni membri dell’esercito locale che controllavano cosa fotografava, cosa peraltro non infrequente in zone di guerra e disse che se anche avesse provato ad andare in aiuto della bambina i soldati glielo avrebbero impedito e, a testimonianza della sua versione, pubblicò anche una foto che era riuscito a scattare e che riprendeva la sua scorta.
Bene. Si conclude questa lunghissima Pillola che spero apprezzerete come ho apprezzato io scrivere e approfondire.
La mia fonte è questo articolo: https://allthatsinteresting.com/kevin-carter
Ciao a tutti e alla prossima Pillola di Fotografia!
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